Nel 2021 in Italia e in tutto il mondo si celebrano i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri che è avvenuta a Ravenna, suo luogo d’esilio, nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321.
La danza ha omaggiato il Sommo Poeta riflettendo a suo modo sulle cantiche più famose della Divina Commedia. Ogni artista ha declinato la poetica dantesca riflettendo e declinando in modo molto diverso la propria opera in danza.
La Commedia rimane non solo un grande esempio di letteratura e un immane sforzo letterario ma soprattutto una fucina di argomenti e di riflessioni che si rivelano di una sconvolgente attualità e che non possono non ispirare i coreografi del nostro tempo.
A giugno e a settembre il Ravenna Festival ha ospitato Dante Solo Inferno e Dante Metànoia.
Nel primo spettacolo, della Compagnia Artemis Danza, il pubblico viene traghettato alla visione di pulsioni primordiali che, grazie al connubio tra le musiche di Giuseppe Verdi e le parole di Dante Alighieri, si incarnano creando un’opera allegorica dove la danza si articola tra sacro e profano. La coreografa Monica Casadei ha scelto di seguire le anime perse lungo un percorso di peccato, consapevolezza, accettazione, dove il punto di arrivo non è più la punizione ma la forza espressiva dell’Io, nella sua pienezza e verità.
Dante Metànoia è un balletto che è stato commissionato dal Ravenna Festival a Sergei Polunin e che ha debuttato a settembre al Teatro Alighieri di Ravenna.
Lo spettacolo è un affresco visionario: il poeta e l’étoile, ribelli e apolidi in cerca di una casa perduta, entrambi lacerati da crisi personali, si immergono in se stessi alla ricerca di significato e di amore, scoprendo il proprio personale paradiso attraverso l’arte e la creatività.
Lo spettacolo è un percorso in tre parti composto da Ross Freddie Ray (Inferno), Sergei Polunin (Purgatorio) e da Jiří Bubeníček (Paradiso).
In scena il protagonista assoluto è Sergei Polunin.
Anche Kaos Balletto di Firenze ha riflettuto su tutte le cantiche producendo La Divina Commedia dove i tre regni dell’oltretomba Inferno, Purgatorio e Paradiso sono stati immaginati grazie a Francesco Mangiapane, Kristian Cellini e Roberto Sartori. I tre coreografi si sono lasciati ispirare sfruttando e ricomponendo le oniriche visioni che Dante regala attraverso la sua immensa opera e chiedendosi: “e se questi tre non luoghi fossero nel tempo e non nello spazio? Se osservando Inferno, Purgatorio e Paradiso pensassimo a passato, presente e futuro?”.
A settembre ha anche debuttato il Paradiso di Virgilio Sieni per cui il cammino di Dante non è assimilabile a niente ma una pura invenzione di una lingua inappropriabile; un cammino dall’umano al divino, dal tempo all’eterno. Lo spettacolo è la costruzione di un giardino e non riporta la parola della Divina Commedia, non cerca di tradurre il testo in movimento ma si pone sulla soglia di una sospensione, cerca di raccogliere la tenuità del contatto e il gesto primordiale, liberatorio e vertiginoso dell’amore.
Uscendo dai confini nazionali, ha indagato sulla Commedia ispirandosi in particolare ad una cantica dell’Inferno, il danzatore e coreografo egiziano Mounir Saeed che con il suo What about Dante ha creato un lavoro miscelato con lo spiritualismo del Sufismo creando una melodia tra il movimento e il suono. L’interprete, che rappresenta Dante, canta e la musica è creata dal performer stesso insieme a inni cristiani e canti orientali cercando di creare una fusione tra la spiritualità delle due culture.
Anche la Royal Opera House di Londra, in coproduzione con il Paris Opera Ballet e il LA Philarmonic, ha presentato ad ottobre in anteprima mondiale il balletto The Dante Project progetto del coreografo Wayne Mc Gregor che per l’occasione ha riunito un team di talenti internazionali con le musiche di Thomas Adès, i set e i costumi dell’artista visiva Tacita Dean, il design delle luci di Lucy Carter e Simon Bennison e la drammaturgia di Uzma Hameed.
Seguendo Adès, Mc Gregor ha avuto “una serie acustica di immagini” a cui reagire: per l’Inferno la musica è giocosa, melodica e divertente e nella coreografia sono stati coinvolti quaranta danzatori; per il Purgatorio sono stati resi in musica e in movimento i concetti di silenzio e di aria per rendere l’atmosfera di un luogo di pace e serenità; per il terzo e ultimo atto, la partitura “attinge alla musica del Rinascimento e del primo Barocco e al suono degli insetti”, combinandosi per creare quello che McGregor descrive come “un incredibile universo materico, planetario, cosmico“.
Per celebrare Dante è stato riproposto anche lo spettacolo Divina Commedia della No Gravity Dance Company che dopo 13 anni dalla sua prima edizione è ritornato in scena con una nuova produzione: Inferno 2021.
Nello spettacolo i coreografi Emiliano Pellisari e Mariana/P hanno scatenato l’immaginazione sul corpo umano che è violentato dalla forza cinetica, fasciato da tessuti bagnati, bendato da corde e stracci, schiacciato a terra e contemporaneamente appeso in aria. Danzatori, atleti e acrobati sfidano la gravità ed immagini straordinarie appaiono dal buio.
Di qualche giorno fa il debutto al Romaeuropa Festival del particolarissimo Inferno di Roberto Castello che, come racconta il coreografo in diverse interviste, ha ideato un lavoro su questa cantica del tutto indipendentemente dalle ricorrenze dantesche.
L’inferno nella cultura occidentale è il luogo dell’espiazione delle colpe morali e materiali ma oggi sarebbe poco credibile una rappresentazione del male come regno di un diavolo sulfureo munito di coda, corna e forcone. L’Inferno, almeno nell’aspetto, qui assomiglia molto al Paradiso: è ciò che spinge a fare ogni sforzo per apparire ogni momento più bravi, più giusti, più belli, più forti, più attraenti, più responsabili, più umili, più intelligenti, che spinge a competere per ottenere gratificazioni morali, sociali, economiche, affettive.
Di qui l’idea di Inferno, una tragedia in forma di ‘commedia ballata’ seducente, piacevole, coinvolgente, brillante sull’invadenza dell’ego.
Per gli appassionati di danza e di letteratura, per chi non conoscesse i canti di Dante o anche solo per chi volesse approfondire, le celebrazioni dantesche sono sicuramente diventate un’importante occasione per conoscere meglio nuove modalità coreografiche ispirate al padre della lingua italiana.
A settembre anche IDA ha dato il suo personale contributo alle celebrazioni dantesche, nell’ambito delle iniziative promosse da Viva Dante organizzate dal Comune di Ravenna, ospitando un laboratorio coreografico, rivolto a danzatori, performer e insegnanti, condotto danzatrice e coreografa, docente di danza contemporanea presso la Scuola di Ballo dell’Accademia delle Arti e Mestieri del Teatro alla Scala, Emanuela Tagliavia. Il laboratorio ha tratto ispirazione dalla lettura di alcuni versi dei Canti del Purgatorio costruendo cellule corografiche a partire da strutture drammaturgiche. Il Purgatorio è luogo in cui si consuma la transizione, la riflessione, nell’attesa del passaggio; una dimensione sospesa in cui buio e luce confluiscono; un luogo generoso di suggestioni e carico di memorie e un limbo non solo di penitenza ed espiazione, ma anche di speranza.
L’esito del laboratorio coreografico è stato ospitato dal Palazzo Galletti Abbiosi in un evento aperto alla cittadinanza.
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Credit Photo Polunin © Silvia Lelli
Inizia la musica. Le luci sul palco salgono lentamente. Tutti gli spettatori hanno gli occhi puntati su di te. Improvvisamente la mente inciampa, la memoria si appanna, le gambe si bloccano e il cuore batte all’impazzata.
Il tanto temuto blocco di memoria ha preso il sopravvento.
Se vi è capitato un episodio simile, di sicuro conoscete la frustrazione che ne deriva.
Ma quali sono le cause che possono provocare una perdita totale di concentrazione? Cos’è che è andato storto nonostante i passi della coreografia siano stati praticati religiosamente per mesi ogni giorno?
Approfondiamo l’argomento con la Dott.ssa Francesca De Stefani Psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Biosistemica esperta sia in ambito sportivo che coreutico e consulente IDA per il settore di Psicologia applicata alla danza.
Dott.ssa De Stefani, quanto l’emotività incide sulla risposta che mente e corpo sono in grado di dare, in una condizione nella quale ci si sente sotto pressione?
Sono felice di poter rispondere a questa domanda perché IDA mi consente ancora una volta di porre l’attenzione su fattori molto importanti del processo di formazione di danzatori ed insegnanti di danza. Viviamo in un’epoca nella quale ci si aspetta di essere performanti 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e di poter far fronte ad ogni richiesta. Per i giovani ballerini che cercano di destreggiarsi tra lezioni di danza, compiti, scuola, amici e famiglia, la vita può essere molto stressante. Lo stress è una risposta fisiologica e psicologica che il corpo mette in atto nei confronti di compiti, difficoltà o eventi della vita valutati come eccessivi o pericolosi. Il vero responsabile di questo processo è il cortisolo, un ormone che viene rilasciato principalmente nei momenti di stress e svolge molte importanti funzioni nel tuo corpo. È prodotto dalle ghiandole surrenali e regolato dalle pituitarie. Quando ti svegli, ti alleni o stai affrontando un evento stressante, la tua ghiandola pituitaria reagisce. Essa invia un segnale alle ghiandole surrenali per produrre la giusta quantità di cortisolo. Quando ci sentiamo stressati, il nostro sistema nervoso va in allerta e il nostro cervello segnala il rilascio di cortisolo. Questa antica risposta fisica può essere fondamentalmente descritta come il conflitto istintivo che ci troviamo a risolvere, davanti ad una tigre con i denti a sciabola: attaccare, immobilizzarci o fuggire? L’esposizione prolungata al cortisolo può causare danni a lungo termine al cervello in via di sviluppo e può influenzare negativamente il sistema immunitario portando a depressione, affaticamento, ridotta capacità di guarigione e a lesioni più frequenti.
Quanto è responsabile una certa cultura radicata nella danza nel sottovalutare lo stress e l’ansia?
Certamente nella mia esperienza di psicoterapeuta ho notato che i ballerini sono riluttanti nel chiedere aiuto e consigli.
Quali mezzi può fornire l’insegnante di danza per aiutare gli allievi nella gestione dello stress e dell’ansia?
L’atteggiamento positivo, il mantenimento della motivazione costante, giusti feedback e correzioni, routine pre performance mirate e tecniche di rilassamento sono tutti strumenti da mettere nella “borsa di danza” per instaurare un rapporto sano con la gestione delle emozioni. Si è portati a pensare, fra gli operatori del settore, che lo stress e l’ansia possano essere giustificati dalla tanta passione che viene riversata in questa magnifica arte. Dare il meglio di sé in qualcosa che ami profondamente è bellissimo ma lo è anche imparare ad essere gentili con se stessi e riconoscere tutti i sentimenti che si affacciano senza desiderare di reprimerli.
Cosa consiglia quindi ai ragazzi che si stanno preparando per un’audizione o uno spettacolo per essere in grado di avere una mente lucida e non trovarsi inghiottiti dallo paura e dall’ansia?
Trovate il tempo per divertirvi! Far sorridere la mente dovrebbe far parte della routine di preparazione!
Di questo argomento e di tutto ciò che aiuta gli allievi a trarre il meglio dalla dedizione alla danza la Dott.ssa De Stefani parlerà nel seminario “Psicologia applicata all’insegnamento della danza (Cerchiamo l’eccellenza, non la perfezione)” che si svolgerà in presenza a Ravenna e in diretta live il 5 marzo 2022.
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Dance trainer o athletic trainer, il punto è uno solo, allenare il corpo per raggiungere la condizione fisica migliore e, soprattutto, una performance senza alcun cedimento.
Anche in questo senso, parlando di “dance trainer” o “athletic trainer” ci rendiamo conto che il mondo anglosassone ci precede: da anni, infatti, nei college e nei contesti accademici inglesi e americani, sono stati approntati programmi per preparare professionisti del settore al ruolo di “preparatori atletici per danzatori”: la storia di ogni singolo ballerino, ci ha infatti insegnato che nella danza, come nello sport, se il corpo non è allenato in base a determinati parametri e se esso non viene assecondato in base a determinate caratteristiche fisiche personali, si rischia di non raggiungere quell’apice tanto agognato.
Per anni questo campo è stato posto in secondo piano, non compreso completamente, talvolta posto in secondo piano proprio perché privo di una lettura coerentemente collegata alla formazione del ballerino stesso. Oggi più che mai i ritmi frenetici costringono gli esperti del settore ad aprire maggiormente gli occhi verso nuove sfide, verso nuovi metodi per combinare salute e prestazione di alto livello.
Diversamente dal mondo anglosassone, in Italia solo nell’ultimo periodo si stanno muovendo i primi passi per dare una linea coerente a una professione necessaria per i danzatori, senza mai prescindere dalle ricerche scientifiche e dalla consapevolezza di quanto questa professione andrà a impattare sul settore.
La medicina della danza non può più essere un mero aggiornamento in più, ma dovrà essere il faro per le scuole, le quali dovranno trovare figure di riferimento per tutelare gli allievi sin dalla giovane età.
Qui nasce la figura del “Dance Trainer®” di IDA, da oggi anche marchio registrato, poiché vi è l’obiettivo di dare nuove chiavi di lettura, fondamentali anche per insegnanti e coreografi, ballerini e tutte quelle figure che ruotano attorno al settore e che in un modo o nell’altro vanno ad influire sul benessere psicofisico del danzatore. La comprensione del ruolo è il primo passo per coglierne tutte le potenzialità in un’ottica di crescita costante.
Non si tratta di raggiungere la miglior performance a scapito del benessere, ma al contrario, il Dance Trainer® condurrà il danzatore a uno stato di benessere psicofisico, primo presupposto per raggiungere uno stato di equilibrio, fondamentale nel percorso di un professionista: le evidenze scientifiche sono cambiate e di conseguenza cambiano i presupposti. Non possiamo più prescindere dalla “cura”, che sia essa legata al gesto tecnico o alla condizione fisica di un determinato muscolo, di una determinata articolazione.
Il danzatore è un atleta e ciò va riconosciuto e accettato, in modo da sviluppare programmi consoni, valorizzando in tali programmi anche la fisiologia del danzatore e la giusta dose di esercizio fisico, fondamentali nello sviluppo del corpo danzante; questo per evitare che, nel percorso di crescita e nel percorso professionale, la forza e l’equilibro muscolare, l’elasticità delle articolazioni o l’integrità ossea diventino le debolezze del danzatore.
Spesso si ricorre al termine accettazione e valorizzazione della preparazione fisica proprio perché nella danza vi è una visione priva di fondamento, che vede l’esercizio fisico non direttamente collegato al gesto tecnico del danzatore, come un esercizio inutile e addirittura controproducente nello sviluppo dell’estetica del gesto artistico.
Recenti ricerche scientifiche hanno dimostrato come tutto questo sia appunto infondato: allenamenti studiati su misura e programmi fitness per danzatori hanno, infatti, messo in luce come ciò abbia portato danzatori a parametri fisici simili a quelli di atleti nella prevenzione di infortuni, senza però interferire nella performance artistica e nell’estetica del gesto, anzi, valorizzando il tutto. In questo senso il ruolo del Dance Trainer® affiancherà quello dell’insegnante e del coreografo nell’acquisizione di consapevolezza fisica del danzatore, completando un team volto alla ricerca e allo sviluppo del percorso tecnico più ottimale, studiando strategie di benessere e allenamenti su misura per il danzatore professionista e per colui/colei alla ricerca della strada giusta verso il professionismo.
Il Dance Trainer® è un professionista della danza, che sa cogliere il giusto compromesso tra preparazione fisica ed estetica, poiché questo percorso non vuole e non deve dimenticare mai che la danza è un’arte ed è prettamente costituita da contenuti artistici.
Il percorso per il ruolo di Dance Trainer® IDA si compone di tre seminari che si svolgeranno sia in presenza sia in diretta live:
Dance Conditioning con Roberta Broglia
Dance Props con Roberta Broglia e Valentina Poggi
Dance Functional Training con Melissa Roda
Un ulteriore approfondimento sul tema:
Sviluppo del salto con Roberta Broglia
Webinar in diretta live | 12 aprile 2022
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Stefano Simmaco, classe 1986, originario di Prato, è un performer a tutto tondo com’è difficile trovarne: danzatore, cantante, attore e compositore.
Stefano ti conosciamo come artista poliedrico ma ultimamente ti sei dedicato molto anche alla composizione musicale… com’è nato questo interesse?
In realtà ho sempre avuto una grande passione per il pianoforte ma da autodidatta: sento in testa una musica e la riproduco, poi, collaboro con bravissimi musicisti che allargano e definiscono il mio pensiero musicale/composizione.
Cos’è per te la musica nella danza?
Io, specie in questo momento, ho bisogno di capire e di vedere la musica con la danza, per me si danza sulla musica, poi rispetto l’astrattismo ma non fa per me.
Per affiancarsi al mondo della musica e capire meglio la musicalità sicuramente un danzatore deve avere una curiosità personale, in modo da capire meglio la composizione che va a danzare.
Io personalmente ho sempre creduto che la danza fosse un’espressione fisica della musica, se non la senti non vai cercare altro e il ballerino che non capisce bene tutte le sfumature della musica fa più fatica ad interpretarla. La danza deve essere all’unisono con la musica.
E secondo te in che modo i giovani possono apprendere meglio questo legame tra danza e musica?
Girando molto e lavorando molto con i ragazzi ho preso consapevolezza che nel mondo della danza ci fosse poca conoscenza nella musica e come ci fosse poca educazione all’ascolto perché i ballerini fanno spesso fatica a distinguere la musica che danzano.
Da questa esigenza ho dato vita un progetto di workshop che fornisse gli strumenti per fare capire meglio questo aspetto. Certo è che bisogna essere curiosi per avere qualcosa di meglio.
Per meglio cosa intendi?
Spesso l’obiettivo non è chiaro e i ragazzi non lo conoscono, purtroppo oggi c’è sempre di più il mito del successo immediato ma nello studio non ci può essere: i social ci hanno cambiato nel modo di pensare in tutto… premo un tasto e posso fare tutto.
Questo mondo ci vuole chiusi in casa, per questo è importante far notare altre cose ai ragazzi: è necessario coinvolgerli anche in altri modi e io cerco di farli lavorare e coinvolgerli più che posso. La gavetta non esiste più ma non si può non pensare ad altro. Il sacrificio, inteso in senso buono, è importante e sano ma spesso non viene più considerato come un valore.
Quale musiche per la danza hai composto di recente?
Per la Compagnia Kaos di Firenze ho composto le musiche delle coreografie di Kristian Cellini per lo spettacolo La divina commedia. Poi ho composto le musiche dello spettacolo Sedotta e sclerata ballet, tratto dall’omonimo romanzo di Ileana Spaziale, con la voce narrante di Barbara de Rossi e ho creato un inedito per CZD2/Giovane Compagnia Zappalà Danza di Catania.
Vedo che comunque sei ancora tanto protagonista anche in teatro, cosa stai portando in scena?
Quello che si dice un one man show… Canto, ballo e suono. Sto avendo molte soddisfazioni e sono molto orgoglioso perché curo regia e testi ma non solo; in scena omaggio tanti cantanti italiani come Lucio Dalla, Massimo Ranieri, Renato Zero, Tiziano Ferro e Jovanotti che sono la mia passione e il mio terreno di elezione.
E l’esperienza televisiva l’hai ormai archiviata?
Diciamo che il mondo della televisione così come la potevo fare io non esiste più, in più capita che chi lavora in televisione non lascia il posto ai giovani e soprattutto sullo spettacolo a 360 gradi non c’è spazio per i giovani. Non c’è spazio per nuovi conduttori e la danza nei corpi di ballo della televisione è veramente ridotta a poca cosa.
Magari sono retrogrado ma per me la televisione è varietà… sono cresciuto con le coreografie di Franco Miseria e Gino Landi.
Poi, diciamo la verità, prima per andare in televisione dovevi essere protagonista in teatro ora è l’esatto contrario per “girare” bisogna andare prima in televisione e poi puoi riempire i teatri.
Hai degli esempi che ti hanno guidato nel tuo percorso artistico?
Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi dello spettacolo. Prendo ad esempio sempre spunto da Massimo Ranieri quando recito e canto e Da Giorgio Panariello ogni volta che scrivo una parte comica.
Poi ricorderò sempre con grande affetto e ammirazione Ennio Morricone che nel 2001 mi premiò come miglior talento dell’anno al Premio Gino Tani al Teatro Argentina di Roma.
Posso dire grazie anche agli insegnamenti di Andrea Cappelletti, docente della Scuola di musica di Fiesole.
E durante il periodo di chiusura cosa hai fatto tu che vivi di spettacolo a 360 gradi?
Diciamo che io sono un mezzo miracolato perché con la mia ragazza (anche lei danzatrice e ballerina nella Compagnia diretta da Roberto Zappalà) viviamo sul “cucuzzulo” della montagna e abbiamo potuto sempre uscire a contatto con la natura. Quei mesi per me infatti sono stati molto produttivi perché ho prodotto il mio disco Tracce e ho organizzato una reunion su Instragram dove ho radunato molti colleghi.
Progetti futuri invece?
Il 10 dicembre uscirà in digitale un nuovo disco con undici nuovi pezzi che spaziano tra l’orchestra e l’elettronica ma in cui è presente anche molta percussione.
Prima di lasciarti non posso che chiederti un ricordo su Raffaella Carrà che hai conosciuto quando hai vinto nel 2015 il programma televisivo Forte, forte, forte.
Quello che mi ha colpito di Raffaella è che lei parlava solo con chi non la considerava. Era più facile che Raffaella entrasse in sintonia con chi si facesse gli “affari propri” e in quel caso era lei a venirti a cercare proprio come è capitato a me. Dietro le quinte mi ha dato tanti consigli ma quello che ho sempre presente nel mio cuore è questo: “per fare questo mestiere, prima di andare in scena, si deve avere il coraggio di avere paura”.
Così ogni volta che vado in scena ci penso e ci vado con un altro passo, respirando e gestendo le emozioni.
Stefano Simmaco sarà in giuria a Expression International Dance Competition (Firenze c/o Danzainfiera 26 e 27 febbraio 2022), e assegnerà come premio una musica inedita da lui composta al vincitore della categoria Modern Jazz Contemporaneo solisti over e ad un coreografo in gara nella categoria Composizione Coreografica da lui selezionato.
Per maggiori informazioni sul concorso visita concorsoexpression.com
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Credit Photo © Simone Ridi
Da sempre, ma in particolare negli ultimi due secoli, la necessità di dare una chiara lettura, sempre aggiornata, rispetto ai più proficui metodi di insegnamento, ha portato educatori, pedagoghi e numerosi ricercatori del settore a indagare il rapporto tra processo di apprendimento, modalità di erogazione dei contenuti e inclinazioni personali.
L’obiettivo è sempre uno, servirsi di strumenti nuovi e all’avanguardia per consentire allo studente, all’allievo, di potersi formare grazie a modalità sempre più efficaci.
L’approccio scientifico, il suo rigore, ha spesso fatto da padrone in questo contesto, ma, negli ultimi tempi, in una costante apertura rispetto all’importanza delle inclinazioni personali nel processo di apprendimento, si è dato più spazio anche ad altri approcci: rigore e creatività sono diventate così, parti contrapposte del medesimo processo e, al tempo stesso, complementari.
Creatività e rigore: le due facce della medesima medaglia.
Da questa continua evoluzione e da questo rapporto viscerale tra rigidità e creatività, non possiamo assolutamente escludere gli approcci di insegnamento della danza: essi, infatti, hanno dovuto per primi scontrarsi con la necessità del rigore nell’apprendimento delle tecniche e la fondamentale importanza della creatività nel processo di produzione artistica.
Ancora oggi però, nei percorsi educativi, la creatività viene inserita tra quelle capacità definite “trasversali”, alla pari delle capacità comunicative e di lavoro in gruppo. Ciò si scontra con le esigenze del mondo attuale, che vede invece la creatività come essenziale, dove il costante mutare delle situazioni e la grande vivacità tecnologica, stanno rendendo necessaria, quasi vitale, la capacità del singolo di apprendere, ma soprattutto di riposizionarsi costantemente in maniera creativa all’interno del contesto di riferimento in ogni preciso momento.
Numerosi studi hanno dimostrato quanto sia motivante la possibilità di poter esprimere la propria creatività all’interno del processo di apprendimento: poter dar spazio alle proprie inclinazioni creative, alle proprie intuizioni, ha messo in luce anche quanto ciò sia proficuo nel percorso educativo, poiché si va a stimolare, contrariamente a quel che si pensa, aree del cervello maggiormente inclini al pensiero razionale, capacità di pensiero critico e capacità di connettere e unire discorsi, senza per forza seguire gli schemi predefiniti.
Tutto ciò acquisisce un eco profondo nel mondo delle discipline artistiche e in particolare nel mondo della danza: creare, improvvisare, costruire qualcosa di nuovo può significare, per un danzatore, soprattutto se in età evolutiva, raggiungere un traguardo stimolante, mettendo in gioco una parte di sé, senza la paura di sentirsi giudicato.
Il valore di questo passaggio è immenso, la creatività in questo può non solo aprire gli orizzonti e le menti, ma sottolinea implicitamente l’importanza del proprio essere, del proprio “io” all’interno del processo creativo: non si parla più di mera acquisizione di concetti e tecniche, ma l’insegnante mette in mano al danzatore degli strumenti, con i quali andare oltre ai preconcetti. In questa ottica, la figura dell’insegnante/formatore diventa cruciale nella formazione di una nuova generazione di danzatori, maggiormente legata al processo creativo in rapporto al contesto socio culturale di riferimento. Vediamo la nascita di una generazione di coreografi molto legati a questo, attivi protagonisti di rivoluzioni interne al mondo della danza, sempre più in stretta relazione con il contesto socio-culturale di riferimento.
Il processo creativo, in questo senso, non punta a reiterare e consolidare la formazione del danzatore passando dal repertorio, ma ha come obiettivo finale proprio quello di coinvolgerlo e condurlo, sin dai primi passi, in un processo di cui sarà parte integrante, all’interno del quale comunicherà il proprio vissuto e le proprie inclinazioni proprio attraverso la danza.
IDA mette in campo un nuovo progetto, “La creatività è il cuore della danza” è infatti il nuovo percorso, caratterizzato da tre seminari tutti dedicati alla creatività, declinata in tre diversi aspetti:
Improvvisazione guidata nella lezione di modern/contemporaneo con Michael D'Adamio
Genomascenico® con Nicola Galli
Dance and colors con Mirko Boemi
Si tratta di un percorso totalmente nuovo nella formazione alla danza, che cerca di coinvolgere i giovani danzatori in percorsi alternativi, focalizzando l’attenzione non solo sui valori tecnici fondanti, ma anche sui vari linguaggi espressivi del corpo in danza. Si possono frequentare i singoli appuntamenti oppure tutto il percorso ottenendo il diploma di Danza creativa.
Un ulteriore approfondimento sul tema:
La danza nei progetti scolastici con Silvia Ardigò
webinar in diretta live 15 marzo 2022
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Marco D’Agostin è un artista attivo nel campo della danza e della performance. Dopo essersi formato con maestri di fama internazionale come Yasmeen Godder, Nigel Charnock, Rosemary Butcher, Wendy Houstoun, Emio Greco, ha iniziato la propria carriera come interprete, danzando, tra gli altri, per Claudia Castellucci/Socìetas Raffaello Sanzio, Alessandro Sciarroni, Liz Santoro, Iris Erez, Tabea Martin e Sotterraneo.
Dal 2010 ad oggi ha sviluppato la propria ricerca coreografica come artista ospite di numerosi progetti internazionali e ha presentato i propri lavori in numerosi festival e teatri europei. Nel 2018 vince il Premio Ubu come Miglior Attore/Performer Under 35.
Di qualche giorno fa la notizia che il suo spettacolo Best regards è stato nominato tra i finalisti del Premio Ubu come Migliore spettacolo di danza del 2021.
Ciao Marco ci rincorriamo da tempo e finalmente ci conosciamo… Stimo molto il tuo lavoro e mi piacerebbe capire meglio in che modo nascono i tuoi spettacoli: qual è il primo motore della tua ricerca?
L’origine è diversa per ogni lavoro. All’inizio ci sono sempre delle immagini, da non intendersi come riferimenti o fonti iconografici ma come serbatoi, atmosfere chiare; è come se ogni lavoro partisse da un kit di desideri, ispirazioni e direzioni con un cuore molto forte al centro. Come diceva Chiara Castellucci, cerco di “ammalarmi delle mie idee”… perché è quel cuore che mi ossessiona; penso solo a quello e lo faccio fino a che diventa altro. Quello che cambia da spettacolo a spettacolo è la natura di questi serbatoi che si differenziano.
Ad esempio nel mio ultimo spettacolo, Saga, volevo lavorare su un paesaggio desertico e su cinque essere umani che vi arrivavano, avevo in mente un certo scorrere del tempo, desideravo suggerire il formarsi e il disfarsi una famiglia.
E nella danza, come espressione del corpo, cosa porti nella tua ricerca?
Nella danza porto l’energia ai suoi estremi; in qualche misura danzo sempre come fosse l’ultima volta, sono io, sono fatto così, almeno fino ad oggi… magari invecchiando qualcosa cambierà!
Non mi dispiacerebbe trovare un modo di lavorare su intensità diverse ma sicuramente mi porto dietro lo scotto di aver iniziato a danzare molto tardi perché non mi è stato permesso di farlo: sono cresciuto in un contesto socio-culturale che non rendeva facile l’accesso a questo tipo di esperienza. Il desiderio è andato negli anni intensificandosi, non potendo essere esaudito, e ne è dunque emersa una danza feroce e vorace.
Quando hai capito invece che non volevi solo danzare ma che volevi creare qualcosa che ti appartenesse totalmente?
Fin dall’inizio ho voluto diventare autore, sin da subito ho saputo che volevo creare dei miei spettacoli. Ho iniziato nel 2010 con lo spettacolo Viola, di cui ero anche interprete.
E quando non sei in scena tu, come lavori con i tuoi interpreti?
Lavoro con la memoria, mi interessa quando il corpo è mosso dai ricordi: lo trovo più vibrante, più denso, più trasparente. Mi interessa lavorare su tre tipi di passato: la memoria della nostra vita, che è il nostro serbatoio più potente: in questo senso invito gli interpreti a sentirsi sempre circondati e mossi da una folla di fantasmi. Il passato a noi più vicino, cioè quello che si stratifica mano a mano che una performance o una pratica vanno avanti: incoraggio chi lavora con me a considerare passato anche quello che è successo pochi secondi fa. E poi c’è una memoria che è pura funzione immaginifica, ovvero quella rivolta ai nostri avi, a chi prima di noi ha agito le nostre stesse mobilità. Alla base del mio lavoro con gli interpreti c’è il tentativo di trovare strategie di gemellaggio tra il pensiero e il corpo.
Spesso collabori con Chiara Bersani, com’è nata questa collaborazione?
Siamo amici: 11 anni fa abbiamo iniziato a scriverci delle lettere, che si sono trasformate in scambi notturni in cui ci raccontavamo le nostre paure e i nostri desideri. Mi viene naturale parlare con lei di ogni processo creativo e dal 2015 ci siamo sempre resi partecipi l’uno dei progetti dell’altro. I nostri incontri avvengono spesso in circostanze domestiche davanti ad un caffè, ad un tè… dialoghiamo per ore e ore, entrando nell’esperienza dell’altro per aprire delle nuove possibilità.
È poi successo che hai persino creato uno spettacolo su una lettera?
Sì, Best regards, presentato in prima nazionale alla Biennale danza 2021, è una lettera scritta a qualcuno che non risponderà mai, un esercizio di memoria, una danza all’ombra di Nigel Charnock, performer e co-fondatore di DV8 Physical Theatre, scomparso nel 2012 e con cui ho avuto anche la fortuna di lavorare.
In questo spettacolo ogni volta che vado in scena leggo una lettera scritta per il pubblico da Chiara di cui non so niente: leggendola per la prima volta mi metto nella stesse condizioni dello spettatore.
Per la tua ricerca il pubblico è un motore altrettanto importante?
Assolutamente. Voglio creare relazioni con il pubblico, voglio instaurare sempre un patto reale con gli spettatori, nel momento esatto della performance. Mi interessano le ragioni per cui quello sguardo va sempre cercato. E in tutti i miei spettacoli cerco un dialogo continuo con il pubblico.
Nei tuoi spettacoli dai anche ampio spazio alle parole, ai testi.
Sì, ma sempre in relazione alle necessità del lavoro e non in un’ottica di trans disciplinarietà.
In ogni spettacolo c’è sempre una drammaturgia, che agisce come una struttura ossea: una rete di rimandi, una consequenzialità delle cose. Mi interessa che le cose siano chiare, quando parlo di chiarezza parlo di chiarezza del cuore. Se per farlo servono le parole, allora le uso.
Per me danza è anche la parola o un gesto che facilita e accompagna la visione dello spettatore, senza un intento pedagogico, ma piuttosto con un intento di accompagnamento, un’azione congiunta in cui i cuori battono insieme.
Per te danza è anche questo?
Non mi interessa capire cosa sia danza e cosa non lo sia ed è questo il motivo per cui continuo a muovermi nel mondo danza, talvolta anche accettando delle critiche: ogni spazio che sfugge alla definizione è sempre uno spazio di possibilità.
Quello che è importante per me è che si attivi sempre una dimensione empatica con lo spettatore, messo di fronte a un corpo che si disgrega in una fatica pesantissima.
Di fatica e sport ne hai parlato spesso nei tuoi spettacoli, vero?
Sì, in First love ad esempio si parla dello sci di fondo. Sono stato sciatore di fondo agonista per dieci anni, pur non amando questa attività. Io credo che mi sia rimasta addosso una tendenza ad affrontare la scena come agonista anche in rapporto allo spettatore: di fronte ai suoi occhi tendo a creare una sfida per il mio corpo e a vincerla esaurendo tutte le energie.
In Formazioni, invece, con Chiara Bersani abbiamo lavorato con squadre di giovani adolescenti: ci interessava addentrarci nelle loro dinamiche di gruppo per portare avanti una ricerca sulla forza dei sogni individuali quando devono cercare un compromesso nell’incontro con gli altri.
Noto anche che le scene nei tuoi spettacoli sono essenziali anche se di forte impatto visivo. Per quale ragione?
Agisco su uno spazio molto vuoto, che lo spettatore possa riempire delle proprie immagini. Il mio ultimo spettacolo, Saga, è il primo lavoro con una scenografia complessa, ma in questo caso l’ho utilizzata perché il dispositivo concorre al compimento dell’idea drammaturgica di base.
Pensi che la tua ricerca, che credo sia così originale, possa coinvolgere un “nuovo” pubblico?
Credo che il pubblico del futuro debba essere al centro di ogni riflessione. Credo che sia importante partire dal ruolo che ha il teatro oggi, e che il ragionamento da fare sia come raccontare che il teatro è un luogo in cui vivere. Io vedo il teatro come uno dei luoghi di vita della città dove i cittadini, anche i più giovani, possano vivere una parte della loro vita: non come un luogo “mistico”.
Credo che chiunque possa avvicinarsi al mio lavoro perché la mia visione del mondo la allargo al pubblico… Faccio sempre il tentativo di consegnare le mie visioni e voglio consegnare al pubblico qualcosa che lo riguarda profondamente.
Lavori con i giovani? Conduci dei laboratori con i ragazzi?
Si mi piace molto condurre laboratori ma è un lavoro complesso e faticoso per me. Li faccio solo quando so di poter condividere, in maniera orizzontale, un tema o un principio di ricerca.
Progetti futuri?
Molte idee e progetti in cantiere.
Per ora posso parlare dell’assolo che creerò per Marta Ciappina, che a proposito è la miglior pedagoga che conosca. Marta sa unire il rigore tecnico del gesto al peso emotivo della sua biografia: insieme andremo a raccontare la sua vita come fosse un romanzo coreografico.
Com’è nata questa idea?
È un’amica e me lo ha chiesto molto tempo fa. Durante le prove di Saga, di cui lei è interprete, abbiamo prodotto molto materiale che non è confluito nello spettacolo e abbiamo deciso di utilizzarlo in questa nuova creazione.
Mi sembra di capire che per te sia importante lavorare con gli amici…
Diciamo che lavoro con un amico, se l’amico è un artista straordinario!
Marco D’Agostin è attualmente in tournèe in Italia e in Francia e queste le date per poter apprezzare dal vivo il suo lavoro:
21 gennaio 2022 Best regards, CCN de Nantes, Nantes
29 gennaio 2022 First love, Teatro di Ragazzola, Roccabianca (Pr)
3 febbraio 2022 Saga, Klap, Maison pour la danse, Marsiglia
18 febbraio 2022 Best regards, Teatro Camploy, Verona
© Expression Dance Magazine - Dicembre 2021
Un tema di cui si parla molto negli ultimi tempi è la consapevolezza di sé in rapporto al mondo, ma soprattutto in rapporto alle proprie abilità e competenze. Tale consapevolezza diventa di vitale importanza in un percorso di crescita professionale, come può essere quello del danzatore, in particolare per passare da un contesto amatoriale a un contesto professionale, considerando quanto in quest’arte il corpo sia il “mezzo di comunicazione” preponderante, talvolta lasciato libero di esprimersi in un processo che spesso focalizza maggiormente sull’automaticità del gesto.
Abbiamo avuto modo di confrontarci con Valerio Iurato su questo e su altri temi: Valerio, danzatore e coreografo, ha intrapreso il suo percorso professionale proprio a Ravenna con I.D.A. e oggi, dopo circa dieci anni, lo ritroviamo con esperienze tutte da raccontare e una consapevolezza nuova, dalla quale è partito nella costruzione di un metodo di apprendimento all’avanguardia…
Valerio e la danza, un amore che nasce in Sicilia, ma non è caratterizzato dai soliti percorsi. Tu cominci come ballerino di danza latino-americana, corretto? Raccontaci i tuoi primi passi.
Per rispondere a questa domanda, è fondamentale iniziare dicendo che io sono “nato tra la danza” e chi come me è nato da genitori danzatori capirà perfettamente perché ritengo essenziale iniziare da questo presupposto.
Nello specifico, io sono nato da mamma insegnate di ballo da sala e latino-americani, con zii e cugini, tutti immersi professionalmente nella danza. Ciò ha fatto sì che fosse inevitabile per me scoprire e innamorami di quest’arte.
Il ballo è parte integrante della mia vita: passione e professione, da sempre!
Nessuno mi ha mai obbligato a seguire questa strada, ma verso gli otto anni ho sentito di volermi buttare, muovendo i primi passi. Da quel momento non ho mai smesso di danzare: la mia infanzia è caratterizzata da innumerevoli competizioni regionali e nazionali, a passi di cha cha cha, samba, rumba, valzer, tango, giungendo poi in seguito a specializzarmi nel Tango Argentino, con ottimi risultati.
A diciannove anni, per migliorare il mio livello tecnico nel Tango, decido di provare delle lezioni di Classico e Contemporaneo e ne rimango subito affascinato. Questo colpo di fulmine mi porta a decidere di intraprendere la carriera professionale di danzatore contemporaneo: parto per Ravenna! Nella città romagnola ho intrapreso il percorso professionalizzante offerto da I.D.A e, contro ogni previsione e opinione negativa di chi cercava di scoraggiarmi per una questione prettamente anagrafica, eccomi qui, dopo più di dieci anni, e dopo aver danzato e coreografato in giro per il mondo, a poter dire che quella è stata assolutamente la migliore decisione che avessi potuto prendere.
Pensi che le danze latine siano valorizzate come le discipline più accademiche o hai respirato anche tu una sorta di classismo?
Non ho mai avuto nessun problema di questo tipo, anzi, essendo coinvolto nel mondo della danza contemporanea, ho sempre trovato che i coreografi con cui ho lavorato abbiano sempre apprezzato l’influenza che queste altre danze hanno avuto nel mio modo di danzare e noto che anch’io sono molto attratto da quei danzatori che alle loro spalle hanno anche esperienza in altre discipline correlate alle proprie radici culturali.
Quando hai capito che avresti voluto un futuro nella danza? Cosa ti ha portato ad ampliare i tuoi orizzonti, dedicandoti anche ad altre discipline?
Sinceramente sin da quando ho iniziato danza, da piccolo, ho sempre voluto investire il mio tempo in quest’arte.
Ho sempre vissuto nella danza e di danza e mi ha sempre incuriosito: ogni stile di danza ha sempre attirato la mia attenzione e ciò mi ha portato a coglierne la vera essenza.
Non riuscivo a spiegarmi il perché di questa esigenza, a volte ho anche criticato me stesso per non riuscire a dedicarmi a una sola disciplina, ma adesso ho la risposta. Inconsciamente ho sempre preferito creare, coreografare e insegnare, rispetto a ballare. Questa tendenza creativa ha portato all’esigenza di voler conoscere quanto più materiale possibile, poiché da sempre ritenuto requisito fondamentale per poter dar voce a questo istinto, a questa volontà.
Dalla Sicilia, all’Austria: hai percorso tanti chilometri, come tanti ballerini della tua età. Credi sia fondamentale spostarsi e conoscere anche il mondo della danza fuori dai confini nazionali? Quale di queste esperienze ti ha più guidato nella costruzione del tuo progetto legato all’apprendimento della danza?
Io trovo fondamentale per il danzatore, per il suo sviluppo artistico e personale, aprire i propri orizzonti e sfidare costantemente quelle che sono le proprie conoscenze e convinzioni, uscendo dalla propria confort zone.
Non credo però sia necessario andare fuori dai confini nazionali per ottenere questo: in Italia si trova un ottimo livello di danza e sempre più la scena italiana sta diventando molto internazionale.
Questo è un valore aggiunto per la crescita di un danzatore che decide di rimanere nella propria nazione. Nella mia esperienza personale, ho avuto la possibilità di conoscere la danza all’estero, prima in Spagna come studente, poi come danzatore professionista ho maturato esperienze in molti teatri in giro per il mondo: America, Canada, Asia, Sudamerica e ovviamente Europa e queste esperienze mi hanno davvero dato tanto.
Di certo, in Austria ho avuto la crescita maggiore, lavorando per sei anni come solista per il Landestheater Linz, insieme a danzatori provenienti da tutte le parti del mondo e dove ho avuto la possibilità anche di coreografare intere produzioni per la compagnia.
Neuroplasticità, eccoci qui. Da danzatore a formatore il passo può essere lunghissimo o brevissimo. Tu ora stai lavorando a un metodo per l’apprendimento della danza legato alle neuroscienze. Da dove nasce tutto ciò?
Tutto ciò nasce dalla necessità di rispondere a delle domande che a un certo punto della mia carriera ho iniziato a pormi in relazione a esigenze personali e a quello che osservavo giornalmente tra i danzatori attorno a me. I punti principali di questa ricerca sono il miglioramento della performance e la salute del danzatore.
Le prime domande sono state:
cosa ho fatto nel mio percorso finora e cosa avrei potuto fare per avere un livello tecnico migliore?
Che cosa mi sta frenando, adesso, in relazione al miglioramento?
È una questione di età?
Posso continuare a migliorare il mio livello tecnico anche essendo un danzatore non più giovanissimo?
In relazione allo stato di salute, è d’obbligo e non vi è altra possibilità quando si diventa danzatore professionista, a causa delle estenuanti ore di lavoro, non riuscire ad avere un atteggiamento salutare nei confronti di quest’arte?
Queste domande hanno trovato risposta nel campo della scienza e nello specifico nell’area dedicata alla Neuroplasticità (l’abilità data dal sistema nervoso di cambiare in relazione all’esperienza). Studiando questo processo ho imparato a livello pratico la scienza che sta dietro all’apprendimento, partendo dai requisiti a livello biologico e i relativi comportamenti necessari per favorire questo processo e conseguentemente migliorare le proprie capacità, fino a comprendere cosa fare o evitare per approcciare questo processo nella maniera più sana possibile, elemento fondamentale per un percorso professionale duraturo.
Self-awarness, consapevolezza e coscienza di sè sono le parole chiave nella costruzione di una propria tecnica. Cosa ci dice la scienza in merito?
Quando studi qualunque disciplina il cui obiettivo è il “miglioramento”, che sia personale, sociale, culturale o economico, consapevolezza e coscienza sono sempre alla base di tale processo. Non vi è possibilità di migliorare un qualcosa di cui non comprendiamo lo stato attuale. Nel caso specifico della danza, è di fondamentale importanza che il danzatore sia costantemente cosciente dei propri punti di forza e soprattutto dei propri punti deboli, in modo da poter consciamente e attivamente agire nel rafforzamento di tali debolezze. Nello studio del metodo che ho sviluppato, la coscienza gioca il ruolo principale. La maggior parte dei nostri comportamenti, atteggiamenti e abitudini sono di natura automatica, riflessiva, inconscia, e molto spesso non siamo consapevoli di ciò. Qui il giusto utilizzo, o come preferisco chiamarlo, il giusto posizionamento della nostra coscienza, ci permette di non auto ingannarci, ma di auto esaminarci (self-awarness) e correggere consciamente se necessario tale processo.
Come pensi di inserire un metodo scientifico nell’apprendimento di un’arte?
Molto spesso la nostra natura ci porta a dover creare un antagonista rispetto a ciò in cui crediamo, in modo da rafforzarne la validità. Nello specifico credo che la scienza sia stata spesso etichettata tra gli antagonisti dell’arte. Razionale contro irrazionale. La danza è un’arte che richiede il pieno coinvolgimento del nostro essere: fisico, mentale e spirituale. Questo totale coinvolgimento rende quest’arte estremamente completa, ma allo stesso tempo estremamente complessa. Tale complessità a volte scoraggia o blocca il processo di crescita personale e artistica del danzatore. Sono convinto che, facendo conoscere al danzatore i meccanismi che stanno dietro quei processi di cui ha bisogno quando danza, meccanismi che la scienza studia e ci insegna, essi possano aiutarlo nella massimizzazione delle proprie qualità, fisiche e mentali e, conseguentemente, anche in un miglioramento nell’espressione artistica.
Il tuo obiettivo e i tuoi prossimi passi?
L’insegnamento e la coreografia sono i due campi dove sto dedicando totalmente le mie forze e il mio tempo. Il mio obiettivo è di poter divulgare il più possibile il mio metodo di insegnamento, con la speranza di poter contribuire ad un avanzamento a livello sia di performance sia di salute in questa arte. Un giorno conto di poter avere la possibilità di creare una mia compagnia dove il danzatore avrà la possibilità di poter scoprire ed esprimere le proprie piene potenzialità in un ambiente che favorisca totalmente questo processo.
Noi come I.D.A. crediamo fortemente nelle intuizioni di giovani coreografi e danzatori. Come abbiamo constatato con Valerio, spesso la possibilità di danzare in diversi contesti come professionista, apre le porte a profonde riflessioni che portano a grandi conquiste e nuovi obiettivi.
Ci vediamo presto Valerio!
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Credit Photo © Ness Rubey
“Non è un nome d’arte ma un grande porta fortuna, mia sorella minore mi chiamava così quando era piccola e da allora io per tutti sono Macia… solo quando mia mamma si arrabbia seriamente mi ricordo di chiamarmi Mariarosaria. Ho iniziato questo lavoro per necessità quando mia mamma, che dirige una scuola di danza a Torre Annunziata (NA), ha avuto un incidente stradale: ho iniziato ad insegnare a 16 anni per aiutarla. Io volevo fare la pediatra ma poi ho continuato su questa strada anche se, all’inizio, quando mi chiamavano ad esibirmi nell’hinterland campano, io ci andavo soprattutto per divertirmi”.
Macia del Prete ha 36 anni con nessuna paura di invecchiare, ama gli animali e persino le zanzare, ed è talmente sincera che è come se mettesse anche te stesso davanti ad uno specchio per cercare la tua vera identità. Dalla provincia di Napoli è partita da una scuola di danza privata e da lì ha girato tutto il mondo.
Macia cosa ti ha portato l’esperienza di lavoro in una scuola di danza?
Lavorare in quel territorio è stata una sfida continua non tanto per insegnare tecnica ai ragazzi quanto perché devi lavorare molto per scolarizzare le famiglie che, d’altro canto, quando capiscono che fanno parte di un percorso più ampio hanno talmente tanta energia che poi ti danno tutto.
Con quale disciplina hai iniziato?
Ho iniziato con l’hip hop, lo vedevo più adatto alla mia fisicità, era la disciplina che indossavo sul mio corpo più facilmente poi, parallelamente, ho sviluppato un grande interesse per la coreografia e con il tempo ho sempre meno amato stare in scena ed essere esposta in prima persona. Poi pian piano ho capito che la danza poteva diventare la mia vita e ho cominciato a studiare a New York (Broadway Dance Center, Peridance, Steps on Broadway): tornavo e partivo e a intermittenza, ogni tre mesi, ritornavo a studiare nella grande mela perché mi scadeva il visto.
E poi per diverso tempo hai fatto anche la danzatrice?
Si ma poi ho smesso, perché la coreografia è diventata il mio terreno di elezione. Sono ritornata sul palco solo quando mi ha chiamata Bill Goodson che mi ha voluto per un tour di Renato Zero nel 2013. Io pensavo di assisterlo invece mi voleva come danzatrice e io in quel momento non volevo una sovraesposizione, però poi ho accettato ed è stata un’esperienza meravigliosa.
Credo sia fondamentale far capire che essere danzatori non sia l’unica professione possibile per chi vive di danza; conoscere la danza dall’interno del settore è una base fondamentale per conoscere questo mondo in modo attento e per avere una base su cui costruire anche altre professioni che vivono ugualmente di danza.
E come mai hai deciso di trasferirti stabilmente a Milano?
Dopo aver terminato la lunga tournèe di Renato Zero ho sentito la necessità di mettere radici e a Milano, dove è tutto più vivace, ho avuto diverse opportunità lavorative e così parallelamente alla mia attività di coreografa, ho ricominciato ad insegnare stabilmente in un percorso professionale. Ho fatto delle scelte e ora ho scelto di volere una continuità che in passato non avevo perché ho fatto anni di nomadismo estremo e a suo tempo l’ho trovato necessario per fare esperienza. Avere una casa fissa mi ha aiutato e in quel momento ho sentito la necessità di segnare un sentiero nuovo e cambiare completamente. Mi ritengo comunque una persona e un’artista molto trasversale che riesce anche a lavorare su piani diversi contemporaneamente.
E poi a Milano è nato un nuovo approccio con il mondo della danza, in che modo?
Attraverso il mondo della moda perché mi hanno cominciata a chiamare come movement director per numerosi brand. Mi piace molto sperimentare anche in questo settore perché, pur mantenendo la mia identità, ho aperto la mia professionalità verso un bacino di utenza molto diverso da quello a cui mi rivolgo abitualmente. La moda mi ha anche aperto ad un senso estetico nuovo, diverso, che ha arricchito la mia esperienza artistica.
E poi, quando sono arrivata a Milano nel 2016, ho cominciato a collaborare stabilmente con la cantante Emma come coreografa dei suoi tour e numerosi video clip.
Come sei arrivata a creare il tuo stile coreografico così particolare?
Negli anni ho codificato una serie di workmap, dedico una parte abbastanza importante della mia ricerca all’ascolto del corpo del danzatore attraverso un materiale coreografico, sono attenta al percorso umano altrimenti vedo solo passi e corpi che si agitano e, per questo, non servo io lo può fare anche un altro insegnante.
E la tua compagnia Collettivo Trasversale com’è nata?
E’ nata nel 2017 da una commissione di lavoro da parte di Emma Cianchi (Art garage di Pozzuoli) che, come artista e ottima amica, con la sua richiesta mi ha aiutato canalizzare le energie che avevo internamente e a conoscere meglio la mia identità artistica.
Credo di fare il mio lavoro quanto possibile organico come concetto: mi piace il pensiero di poter spaziare verso la novità, ho bisogno che il giorno precedente sia sempre diverso da quello successivo.
Come scegli i danzatori delle tue creazioni?
Io scelgo quelli scartati dagli altri perché troppo alti, troppo bassi, troppo urban, troppo in carne e così via. Detesto gli stereotipi e la diversità è alla base della mia ricerca creativa. Ho la necessità di imbattermi in un materiale umano che “semplicemente” abbia una sua qualità netta, che sia personale e che manifesti chiaramente una luce propria. L’individualità e la personalità sono cardini di attrattiva per me.
Mi piace la naturalezza del gesto, perché il danzatore si riappropri del suo essere umano; guido alla ricerca e poi sento i punti cardini propri di ogni danzatore. Credo nell’ascolto sfruttando quello che si ha, credo che ognuno abbia un proprio punto di partenza e che, grazie alla mia ricerca, possa arrivare a nuove esplorazioni del proprio corpo: voglio portare il danzatore al piacere di quello che fa.
Quindi per te la danza può essere anche terapia?
Certamente. Ultimamente ho anche creato uno spazio di ricerca del movimento per non danzatori e sta avendo una funzione terapeutica: aiuta a liberare la testa specie dopo l’esperienza vissuta negli ultimi due anni… in molti abbiamo avuto scompensi emozionali.
E Macia come si sente dopo questi anni?
Che dire… finalmente siamo tornati di nuovo in scena ma la prima volta sul palco mi sembrava di essere tornata indietro anni luce!
E ora con quale spettacolo sei in tournèe?
Body things Xxy Chapter 2 che è il sequel di Body Things, investigazione sulle molteplici variabili del nostro strumento corporeo, spettacolo interpretato da due danzatori invece che sei del primo capitolo. Il lavoro rappresenta un’analisi delle fluttuazioni di genere attraverso un’introspettiva sulla realtà del genere nelle persone intersessuali. Lo spartito coreografico si snocciola attraverso una narrazione fragile e difficile incentrata sulla percezione intima e “diversa” di un soggetto non binario mediante le prime esperienze sentimentali e sessuali, tra la confusione che tutto ciò può creare e la pressione psicofisica che essi subisce nel dover operare una scelta sul proprio corpo “strano”. Una spirale di compromessi da accettare e domande a cui trovare risposta concretamente con il corpo ma concettualmente con la mente ed il cuore.
Questi temi mi stanno a cuore e per me è molto importante esplicitare il mio percorso individuale anche attraverso la danza.
Su Instagram sei molto popolare, ti piacciono i social?
Io pubblico ma non ho fatto niente per incrementare le mie pagine, i miei followers sono naturalmente seguaci, perché non sono un personaggio che ha fatto tanta televisione e ho avuto un’attenzione mediatica per questo motivo. Ho avuto attenzione invece essendo come sono, pane al pane. Per come sono fatta io rasata, piena di tatuaggi, non era così scontato che potessi aprire una breccia nel pubblico.
Credo quindi che con l’intelligenza si possa fare di tutto e mi sono sempre messa nelle mie condizioni perché tento sempre di fare quello che mi passa per la testa. Non riesco mai a godermi la quiete: una mattina posso stravolgere anche la mia vita. Anche se poi c’è un processo silente che mi costa, lo combatto ma poi non ce la faccio e alla fine faccio sempre quello che ritengo giusto. Sono sempre onesta con me stessa.
E con gli altri?
Sono una persona sincera se vengo interpellata dico quello che penso. Penso spesso e lo esplicito che ad esempio il mio lavoro possa bastare a se stesso ma in Italia non è così, sembra sempre che devi dimostrare qualcosa. Invece quando sono tornata per lavoro a New York chiamata dalla Peridance Contemporary Dance Company e quando, come professionista, sono entrata in sala nessuno mi ha chiesto da dove venivo. Lì c’è proprio un’altra forma mentis: chi entra in sala ha qualcosa da condividere punto e basta e nessuno dovrebbe giustificare i pensieri che ha.
La mia sincerità si esplicita anche nel mio terreno d’elezione che è lo spettacolo dal vivo, in teatro, perché lì, con il pubblico, nessuno può mentire e io mi sento a mio agio perché posso essere completamente sincera.
Parallelamente al tuo lavoro di coreografa continui a insegnare. Ogni tanto torni ancora ad insegnare nella scuola di danza da cui tutto è partito e che ora dirige anche tua sorella?
Sì, ci torno ma non per lavorare (anche se insistono tantissimo per ospitarmi), ma quando vado a casa il mio primo pensiero è quello di riposarmi e stare con la mia famiglia con cui ultimamente sto davvero poco.
Pensi che il momento formativo nelle scuole e negli workshop siano sempre una buona palestra per emergere?
Sì, continuo a pensare che il contenitore scuola e formazione siano ancora un’officina interessante, anche insegnando in particolare percorsi che hanno una prospettiva professionale. Molto di questo materiale che raccolgo nei momenti formativi torna nei miei lavori coreografici.
Voglio insegnare a chiunque… mi restituisce molto della mia identità, però il ruolo di insegnante lo prendo sempre con le pinze, se mi chiamano maestra mi sento troppo strana, su un piedistallo e non mi sento nei miei panni.
Riporto il mio metodo anche negli stage dove cerco di delineare una crepa nelle micro sicurezze dei ragazzi per portarli a guardare altrove.
E poi non voglio che i miei studenti diventino una nuova me, perché io esisto già.
© Expression Dance Magazine - Dicembre 2021
Il Dipartimento per lo sport della Presidenza del Consiglio dei Ministri il 10 gennaio 2022 ha pubblicato le ultime linee guida per l'attività sportiva di base e l'attività motoria in genere, ai sensi del decreto legge del 22 aprile.
Per approfondimenti:
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