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Macia Del Prete, nel materiale umano cerco l'altrove

Macia Del Prete, nel materiale umano cerco l'altrove

Non è un nome d’arte ma un grande porta fortuna, mia sorella minore mi chiamava così quando era piccola e da allora io per tutti sono Macia… solo quando mia mamma si arrabbia seriamente mi ricordo di chiamarmi Mariarosaria. Ho iniziato questo lavoro per necessità quando mia mamma, che dirige una scuola di danza a Torre Annunziata (NA), ha avuto un  incidente stradale: ho iniziato ad insegnare a 16 anni per aiutarla. Io volevo fare la pediatra ma poi ho continuato su questa strada anche se, all’inizio, quando mi chiamavano ad esibirmi nell’hinterland campano, io ci andavo soprattutto per divertirmi”.

Macia del Prete ha 36 anni con nessuna paura di invecchiare, ama gli animali e persino le zanzare, ed è talmente sincera che è come se mettesse anche te stesso davanti ad uno specchio per cercare la tua vera identità. Dalla provincia di Napoli è partita da una scuola di danza privata e da lì ha girato tutto il mondo.

Macia cosa ti ha portato l’esperienza di lavoro in una scuola di danza?

Lavorare in quel territorio è stata una sfida continua non tanto per insegnare tecnica ai ragazzi quanto perché devi lavorare molto per scolarizzare le famiglie che, d’altro canto, quando capiscono che fanno parte di un percorso più ampio hanno talmente tanta energia che poi ti danno tutto.

Con quale disciplina hai iniziato?

Ho iniziato con l’hip hop, lo vedevo più adatto alla mia fisicità, era la disciplina che indossavo sul mio corpo più facilmente poi, parallelamente, ho sviluppato un grande interesse per la coreografia e con il tempo ho sempre meno amato stare in scena ed essere esposta in prima persona. Poi pian piano ho capito che la danza poteva diventare la mia vita e ho cominciato a studiare a New York (Broadway Dance Center, Peridance, Steps on Broadway): tornavo e partivo e a intermittenza, ogni tre mesi, ritornavo a studiare nella grande mela perché mi scadeva il visto.

 

Macia del prete ph.Di Donna

E poi per diverso tempo hai fatto anche la danzatrice?

Si ma poi ho smesso, perché la coreografia è diventata il mio terreno di elezione. Sono ritornata sul palco solo quando mi ha chiamata Bill Goodson che mi ha voluto per un tour di Renato Zero nel 2013. Io pensavo di assisterlo invece mi voleva come danzatrice e io in quel momento non volevo una sovraesposizione, però poi ho accettato ed è stata un’esperienza meravigliosa.

Credo sia fondamentale far capire che essere danzatori non sia l’unica professione possibile per chi vive di danza; conoscere la danza dall’interno del settore è una base fondamentale per conoscere questo mondo in modo attento e per avere una base su cui costruire anche altre professioni che vivono ugualmente di danza.

E come mai hai deciso di trasferirti stabilmente a Milano?

Dopo aver terminato la lunga tournèe di Renato Zero ho sentito la necessità di mettere radici e a Milano, dove è tutto più vivace, ho avuto diverse opportunità lavorative e così parallelamente alla mia attività di coreografa, ho ricominciato ad insegnare stabilmente in un percorso professionale. Ho fatto delle scelte e ora ho scelto di volere una continuità che in passato non avevo perché ho fatto anni di nomadismo estremo e a suo tempo l’ho trovato necessario per fare esperienza. Avere una casa fissa mi ha aiutato e in quel momento ho sentito la necessità di segnare un sentiero nuovo e cambiare completamente. Mi ritengo comunque una persona e un’artista molto trasversale che riesce anche a lavorare su piani diversi contemporaneamente.

E poi a Milano è nato un nuovo approccio con il mondo della danza, in che modo?

Attraverso il mondo della moda perché mi hanno cominciata a chiamare come movement director per numerosi brand. Mi piace molto sperimentare anche in questo settore perché, pur mantenendo la mia identità, ho aperto la mia professionalità verso un bacino di utenza molto diverso da quello a cui mi rivolgo abitualmente. La moda mi ha anche aperto ad un senso estetico nuovo, diverso, che ha arricchito la mia esperienza artistica.

E poi, quando sono arrivata a Milano nel 2016, ho cominciato a collaborare stabilmente con la cantante Emma come coreografa dei suoi tour e numerosi video clip.

Come sei arrivata a creare il tuo stile coreografico così particolare? 

Negli anni ho codificato una serie di workmap, dedico una parte abbastanza importante della mia ricerca all’ascolto del corpo del danzatore attraverso un materiale coreografico, sono attenta al percorso umano altrimenti vedo solo passi e corpi che si agitano e, per questo, non servo io lo può fare anche un altro insegnante. 

E la tua compagnia Collettivo Trasversale com’è nata?

E’ nata nel 2017 da una commissione di lavoro da parte di Emma Cianchi (Art garage di Pozzuoli) che, come artista e ottima amica, con la sua richiesta mi ha aiutato canalizzare le energie che avevo internamente e a conoscere meglio la mia identità artistica.

Credo di fare il mio lavoro quanto possibile organico come concetto: mi piace il pensiero di poter spaziare verso la novità, ho bisogno che il giorno precedente sia sempre diverso da quello successivo. 

Come scegli i danzatori delle tue creazioni?

Io scelgo quelli scartati dagli altri perché troppo alti, troppo bassi, troppo urban, troppo in carne e così via. Detesto gli stereotipi e la diversità è alla base della mia ricerca creativa. Ho la necessità di imbattermi in un materiale umano che “semplicemente” abbia una sua qualità netta, che sia personale e che manifesti chiaramente una luce propria. L’individualità e la personalità sono cardini di attrattiva per me.

Mi piace la naturalezza del gesto, perché il danzatore si riappropri del suo essere umano; guido alla ricerca e poi sento i punti cardini propri di ogni danzatore. Credo nell’ascolto sfruttando quello che si ha, credo che ognuno abbia un proprio punto di partenza e che, grazie alla mia ricerca, possa arrivare a nuove esplorazioni del proprio corpo: voglio portare il danzatore al piacere di quello che fa.

Quindi per te la danza può essere anche terapia?

Certamente. Ultimamente ho anche creato uno spazio di ricerca del movimento per non danzatori e sta avendo una funzione terapeutica: aiuta a liberare la testa specie dopo l’esperienza vissuta negli ultimi due anni… in molti abbiamo avuto scompensi emozionali.

E Macia come si sente dopo questi anni?

Che dire… finalmente siamo tornati di nuovo in scena ma la prima volta sul palco mi sembrava di essere tornata indietro anni luce! 

E ora con quale spettacolo sei in tournèe?

Body things Xxy Chapter 2 che è il sequel di Body Things, investigazione sulle molteplici variabili del nostro strumento corporeo, spettacolo interpretato da due danzatori invece che sei del primo capitolo. Il lavoro rappresenta un’analisi delle fluttuazioni di genere attraverso un’introspettiva sulla realtà del genere nelle persone intersessuali. Lo spartito coreografico si snocciola attraverso una narrazione fragile e difficile incentrata sulla percezione intima e “diversa” di un soggetto non binario mediante le prime esperienze sentimentali e sessuali, tra la confusione che tutto ciò può creare e la pressione psicofisica che essi subisce nel dover operare una scelta sul proprio corpo “strano”. Una spirale di compromessi da accettare e domande a cui trovare risposta concretamente con il corpo ma concettualmente con la mente ed il cuore.

Questi temi mi stanno a cuore e per me è molto importante esplicitare il mio percorso individuale anche attraverso la danza.

Su Instagram sei molto popolare, ti piacciono i social?

Io pubblico ma non ho fatto niente per incrementare le mie pagine, i miei followers sono naturalmente seguaci, perché non sono un personaggio che ha fatto tanta televisione e ho avuto un’attenzione mediatica per questo motivo. Ho avuto attenzione invece essendo come sono, pane al pane. Per come sono fatta io rasata, piena di tatuaggi, non era così scontato che potessi aprire una breccia nel pubblico. 

Credo quindi che con l’intelligenza si possa fare di tutto e mi sono sempre messa nelle mie condizioni perché tento sempre di fare quello che mi passa per la testa. Non riesco mai a godermi la quiete: una mattina posso stravolgere anche la mia vita. Anche se poi c’è un processo silente che mi costa, lo combatto ma poi non ce la faccio e alla fine faccio sempre quello che ritengo giusto. Sono sempre onesta con me stessa.

E con gli altri?

Sono una persona sincera se vengo interpellata dico quello che penso. Penso spesso e lo esplicito che ad esempio il mio lavoro possa bastare a se stesso ma in Italia non è così, sembra sempre che devi dimostrare qualcosa. Invece quando sono tornata per lavoro a New York chiamata dalla Peridance Contemporary Dance Company e quando, come professionista, sono entrata in sala nessuno mi ha chiesto da dove venivo. Lì c’è proprio un’altra forma mentis: chi entra in sala ha qualcosa da condividere punto e basta e nessuno dovrebbe giustificare i pensieri che ha. 

La mia sincerità si esplicita anche nel mio terreno d’elezione che è lo spettacolo dal vivo, in teatro, perché lì, con il pubblico, nessuno può mentire e io mi sento a mio agio perché posso essere completamente sincera.

Parallelamente al tuo lavoro di coreografa continui a insegnare. Ogni tanto torni ancora ad insegnare nella scuola di danza da cui tutto è partito e che ora dirige anche tua sorella?

Sì, ci torno ma non per lavorare (anche se insistono tantissimo per ospitarmi), ma quando vado a casa il mio primo pensiero è quello di riposarmi e stare con la mia famiglia con cui ultimamente sto davvero poco.

Pensi che il momento formativo nelle scuole e negli workshop siano sempre una buona palestra per emergere?

Sì, continuo a pensare che il contenitore scuola e formazione siano ancora un’officina interessante, anche insegnando in particolare percorsi che hanno una prospettiva professionale. Molto di questo materiale che raccolgo nei momenti formativi torna nei miei lavori coreografici. 

Voglio insegnare a chiunque… mi restituisce molto della mia identità, però il ruolo di insegnante lo prendo sempre con le pinze, se mi chiamano maestra mi sento troppo strana, su un piedistallo e non mi sento nei miei panni. 

Riporto il mio metodo anche negli stage dove cerco di delineare una crepa nelle micro sicurezze dei ragazzi per portarli a guardare altrove.

E poi non voglio che i miei studenti diventino una nuova me, perché io esisto già.

 

 

© Expression Dance Magazine - Dicembre 2021

 

 Photo Credit © Marco Di Donna 

 

 

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