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Roberto Castello, la danza, un’arte legata al momento in cui sei

Roberto Castello, la danza, un’arte legata al momento in cui sei

Roberto Castello, danzatore, coreografo e insegnante, è tra gli iniziatori della danza contemporanea in Italia. 

Nei primi anni ‘80 danza a Venezia nel “Teatro e danza La Fenice di Carolyn Carlson”, dove realizza le sue prime coreografie. Nel 1984 è tra i fondatori di Sosta Palmizi, nel 1993 fonda ALDES e dal 2008, con ALDES, cura il progetto “SPAM! rete per le arti contemporanee” nella provincia di Lucca, ospitando residenze, una programmazione multidisciplinare di spettacoli, workshop, attività didattiche e incontri.

Durante la sua carriera, collabora, tra gli altri, con Peter Greenaway, Eugène Durif, Rai3 / Fabio Fazio e Roberto Saviano nel programma televisivo Vieni via con me e Studio Azzurro. Ha ricevuto il Premio UBU nel 1985, 2003 e 2018.

Si è sempre battuto per il riconoscimento della danza contemporanea e per un sistema dello spettacolo equo, efficiente e sostenibile.

In un documentario che racconta la sua storia mi ha colpito la sua dichiarazione: “detesto le mode, le forme di conformismo consapevole e inconsapevole” e gli chiedo se questo ha anche a fare con la “repulsione” che, mi ha confessato subito, per i social networks, con una negazione secca mi dice che nulla c’entra con questa affermazione ma in merito ci racconta: 

“Ad un certo punto della mia vita mi sono accorto che passavo la quasi totalità del mio tempo a comunicare con persone lontane via telefono, e-mail o sms, e che quindi la mia attenzione di fatto non era quasi mai rivolta alla situazione in cui mi trovavo e alle persone che avevo intorno. Mi è sembrato giusto porre un limite. Per questo ho deciso di non aprire anche la porta dei social. Non è un flusso costante di informazioni a favorire l’approfondimento. Se voglio saperne di più su qualcosa, preferisco andarmi a cercare le informazioni dove immagino che potrò trovarle, e anche che - se qualcuno desidera che io sia informato di qualcosa – faccia lo sforzo di rivolgersi direttamente a me. Delegare ad algoritmi le informazioni su cui si fonda la mia percezione della realtà mi sembra pericoloso.” 

Nel tuo ultimo spettacolo Inferno mi sembra che parli in qualche modo anche dei social?

Nello spettacolo tutto ruota intorno al consumarsi nel tentativo dell’essere apprezzati, di essere popolari. Una considerazione che riguarda certamente i social ma che affrontiamo in termini più generali.

L’unità di misura su cui misuriamo noi stessi sono ‘gli altri’. Siamo in perenne, anche se spesso inconsapevole, competizione con chi abbiamo intorno. Tutti abbiamo bisogno di credere che, almeno in qualcosa, anche in qualcosa di molto piccolo o intimo, siamo meglio degli ‘altri’. Siamo costantemente spinti a provare ad essere, o quantomeno ad apparire più bravi, più giusti, più belli, più forti, più attraenti, più responsabili, più sensibili, più buoni, più umili, più intelligenti, etc… delle persone con cui ci misuriamo. Per questo in “Inferno” i danzatori sono sempre esplicitamente alla ricerca del plauso del pubblico, e man mano che lo spettacolo procede, la cosa raggiunge livelli parossistici. Il risultato è un atto di incredibile generosità da parte degli interpreti, una sorta di gioiosa auto immolazione, cui il pubblico risponde sempre con grande entusiasmo.

Conosco Porcari, in provincia di Lucca, solo grazie alla compagnia che dirigi. Come avete scelto di avere una sede lì?

È una storia lunga che parte dalla metà degli anni ’90 quando le compagnie di danza hanno cominciato a combattere per avere le stesse opportunità di quelle di prosa per quanto riguarda la possibilità di avere una sede stabile e fornire servizi ai territori. Una cosa che la legge di riferimento della danza di fatto impediva. Dopo decenni di battaglie nel 2008 la Regione Toscana ha attivato un sistema di residenze artistiche che ha superato questa impossibilità di fatto e noi abbiamo deciso di insediarci nella provincia di Lucca perché era un territorio non urbano sostanzialmente privo di offerta culturale. È stata un’esperienza estremamente istruttiva. 

All’inizio nessuno o quasi era interessato a ciò che proponevamo, anche quando invitavamo grandi nomi dello spettacolo contemporaneo internazionale. 

Lavorare in un territorio sostanzialmente rurale mi ha insegnato molte cose, prima fra tutte a ridimensionare il mio ego. Il fatto che ci siano miei lavori che vengono apprezzati in molti festival europei non incide quasi per nulla sul rapporto con il pubblico locale.

Mi sembra che sia molto generoso da parte di ALDES ospitare i giovani autori. Da cosa nasce l’idea di questa possibilità?

Ho avuto la disponibilità di uno spazio prove solo verso i 50 anni; prima mi appoggiavo alle scuole di danza che avevano spazi liberi solo alla mattina e ho ben presente quanto sia difficile lavorare non avendo uno spazio per provare. Per questo la nostra sala prove e la nostra foresteria vengono dati gratuitamente. Chi ha bisogno dello spazio ce lo chiede e, se è disponibile, gli viene dato. 

Altra cosa è invece il sostegno che diamo agli autori ALDES: in questo caso condividiamo anche la struttura organizzativa e amministrativa.

Mi ha particolarmente colpito una tua affermazione: “il mio lavoro viene pagato dalle tasse dei cittadini”:

É un dato di fatto e credo che sia qualcosa che chi fa il nostro lavoro non dovrebbe dimenticare. Il nostro rapporto è con l’economia pubblica. Anche chi compera i nostri spettacoli lo fa quasi unicamente con soldi pubblici. Il nostro lavoro quindi deve provare ad essere utile anche a chi, pur finanziandolo con le tasse che paga, non viene a vedere i nostri lavori. Mi piace pensare alla posizione dell’artista come un servizio.

E a un giovane che vuole vivere di danza cosa ti senti di consigliare?

Il termine danza non dice niente di preciso, si può fare in mille modi. In ogni caso è un lavoro difficile, poco redditizio, spesso frustrante, che si può fare bene solo per un limitato numero di anni. Non ha senso affrontarlo come una qualsiasi altra carriera, se si lavora per sé stessi e non per la soddisfazione di dare qualcosa di prezioso al pubblico.

Certamente non c’è possibilità di affermazione se non c’è la capacità di essere generosi, di darsi senza calcolo. Il pubblico lo apprezza ma ancora di più i coreografi. La generosità e la dedizione spesso non hanno riscontri immediati ma alla distanza credo siano il migliore investimento che un danzatore possa fare.

Nei tuoi spettacoli la danza è accompagnata dall’uso delle parole, della tecnologia o del canto. È la tua cifra?

Non mi pongo il problema dei materiali che compongono i miei lavori. Utilizzo senza pregiudizio tutto quello che serve per realizzare quello che ho in mente. Le parole e la voce spesso mi tornano utili, così come la tecnologia, la musica, le luci, i costumi.  La danza, o meglio il teatro, è un’arte effimera che in definitiva esiste solo nella mente di chi guarda. Il punto è catturare l’attenzione di ogni singolo spettatore e guidarlo in un viaggio di pensieri, evocazioni, emozioni che alla fine, benché questo non sia quasi mai definibile con esattezza a parole, finisca per essere un’esperienza significativa che produce senso.

Spesso approfitto di ciò che gli interpreti sanno già fare ma, se occorre altro, ci si mette lì e si impara a farlo.

Hai molto rispetto per il pubblico e gli spettatori. Succede invece spesso di vedere spettacoli di danza contemporanea che sembrano creati per celebrare solo l’artista in scena. Cosa ne pensi?

Che non è il mio modo di pormi rispetto al lavoro. Ho iniziato a danzare in un’epoca in cui c’erano ancora i divi. Il divismo è un modo di vivere la scena di cui ho sempre colto soprattutto gli aspetti ridicoli. Poi il divismo è sostanzialmente scomparso, per fortuna, e gli è subentrato un sistema che si rifà alle logiche dell’arte visiva, del prodotto esclusivo non alla portata di tutti. Una dinamica che si regge essenzialmente sulla legittimazione reciproca fra artisti, critici e programmatori, molto lontana dal mio modo di pensare.

Progetti futuri?

Ora siamo a Bruxelles con Inferno poi realizzeremo la versione italiana di Tomorrow’s Parties, uno spettacolo teatrale inglese per due attori creato da Tim Etchells, regista dei Forced Entertainment, nel 2011; poi saremo ancora in tour - soprattutto con i lavori più grandi – più all’estero che in Italia (Francia, Germania, etc…). Nella nostra rassegna autunnale, oltre ad artisti italiani, africani e del medio oriente, per la prima volta ospiteremo anche la poesia contemporanea. Il prossimo anno poi partiranno nuovi progetti e, forse, riusciremo anche a trasferirci in una nuova sede. 

Credo che il teatro di Roberto Castello abbia ancora tanto da dire e, anche molto, alle nuove generazioni perché sa parlare ad un pubblico di ogni età e perché, prendendo in prestito le parole del critico Massimo Marino grazie all’ironia “apre degli squarci che portano ad aprire altri mondi” e cerca sempre “di decifrare in modo artistico la realtà in cui viviamo”, dando vita a “comunità (in scena) per creare bellezza condivisa con il pubblico, con ogni singolo spettatore” (Andrea Porcheddu).

 

Foto di Alessandra Moretti

 

© Expression Dance Magazine - Settembre 2022

 

 

 

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