Come tutti i ballerini ha una vacanza di un mese e al massimo due settimane di riposo dagli allenamenti ma proprio durante uno di questi rari momenti di vacanza, Claudio Coviello ci ha riservato un po’ di tempo in una domenica infuocata dal caldo perché conosce molto bene la nostra rivista e la segue da tempo.
Primo Ballerino della Scala, classe 1991, ci ha raccontato con assoluta modestia e grande stima e riconoscenza la storia di un bambino che dalla sua città nativa, Potenza, è arrivato sino all’Olimpo dei grandi della danza italiana.
Parlando si avverte subito indistintamente l’amore che coltiva per il suo mestiere di danzatore e la grande capacità che possiede nel descrivere il suo lavoro che, crede, sia solo uno dei tanti lavori possibili ma che, nel suo caso, ha fatto coincidere passione, dedizione e sacrificio con il lavoro.
Claudio possiamo ancora seguire su Rai Play la docu-serie Corpo di ballo di cui sei stato protagonista e che racconta la storia di alcuni danzatori del Teatro alla Scala nell’anno di pandemia e del vostro rientro sulle scene. Com’è stato l’impatto con il mezzo televisivo per te così abituato al linguaggio teatrale?
All’inizio mi sembrava davvero strano, avere tante persone in giro e poi noi danzatori siamo molto più abituati ad esprimerci con il corpo che non con le parole quindi proprio in quei mesi in cui ci stavamo nuovamente abituando a “rivivere la nostra vita”, il mezzo televisivo mi sembrava qualcosa di ancora più difficile. Poi invece chi lavorava dietro le quinte è stato davvero bravo a metterci a nostro agio quindi alla fine essere ripreso durante la mia quotidianità non mi ha più messo in crisi e a un certo punto tutti noi ci siamo persino dimenticati della presenza dello staff che è rimasto con noi per più di un mese.
Nel complesso sono davvero stato molto contento e orgoglioso di questa esperienza perché credo che ci sia bisogno di abbattere molti stereotipi sulla danza e parlare di danza al grande pubblico, specie con nuove modalità, non può che far bene al nostro mondo.
Di quali stereotipi parli in particolare?
In Italia, rispetto ad altri paesi, c’è ancora poca attenzione rispetto alla danza come lavoro e ancora troppi, a mio avviso, pensano che sia un capriccio andare a ballare e che danzare sia un hobby, solo una passione che non porta a vivere. A queste persone posso dire che io, come molti altri, vivo di danza e questo può essere qualcosa possibile anche se non facilmente realizzabile.
Certo, l’altro lato della medaglia è che il mercato del nostro lavoro è abbastanza duro e che in Italia abbiamo visto chiudere tanti Corpi di ballo in diversi Teatri lirici e molti sono costretti a cambiare paese per realizzarsi, ma io sono stato molto fortunato e sono riuscito a vivere di danza rimanendo nel mio Paese.
Ritornando al tuo lavoro, come ti ha cambiato questo momento di chiusura dei teatri?
Il primo mese dopo il lockdown non sapevamo bene cosa ci dovessimo aspettare, alla fine un mese lo vedi un po’ come una vacanza, un gioco… fai tutto quello che di solito non riesci a fare.
Poi, non lo nascondo, mi è caduto un po’ il mondo addosso, sono rimasto male e ho fatto tanta fatica a riprendermi, non riuscivo ad accettare questo cambiamento, questa costrizione; anche se mi sono dovuto comunque sforzare per tenermi in allenamento prendendolo un po’ come un allenamento da periodo di riposo durante i giorni di vacanza: non ero contento ma lo dovevo fare… Allenarsi così per mesi è stato davvero molto strano: ho una casa piccola e non ci sono spazi in cui muoversi quindi tutto è stato meno dinamico e il mio corpo ne ha risentito davvero tanto.
Quando sono rientrato in una vera sala, che di solito considero come una seconda casa, mi sono sentito stranamente spaesato: è stata davvero una sensazione straniante e dopo sei mesi da quel giorno in avanti ho avvertito comunque una grande fatica.
Ancora oggi non credo di essere nel pieno della mia forma fisica anche se in questi mesi io e alcuni miei colleghi siamo stati protagonisti di un Gala e siamo andati sul palcoscenico con assoli e pas de deux, in autunno invece interpreterò finalmente di nuovo un balletto intero, Don Chisciotte, con le coreografie di Rudolf Nureyev… non vedo l’ora!
Com’è nata la tua passione per la danza?
Mi ricordo che è nato tutto per gioco, in famiglia nessun era appassionato di teatro e tanto meno di danza, tuttora mi ricordo però il giorno in cui ho avuto la folgorazione: ero in vacanza al mare a 5 anni in un villaggio vacanze e lì ho capito che mi piaceva tantissimo ballare così chiesi ai miei genitori di iscrivermi ad una scuola di danza. Mi sono subito approcciato alla danza classica poi sono stato notato dall’allora primo ballerino dell’Opera di Roma, Salvatore Capozzi, e a 10 anni e mi sono trasferito a Roma per studiare alla scuola di danza dell’Opera. Sono andato a Roma con i miei nonni perché i miei genitori lavoravano: è stato un periodo di sacrifici per tutti.
All’ inizio l’ho presa come un gioco, poi a Roma ho subito notato un impatto diverso, un ambiente professionale ma stando con la famiglia e passando molto tempo con i miei compagni di corso ho vissuto in maniera molto serena quei momenti.
Credi dunque che sia importante la funzione delle scuole di danza private?
È fondamentale l’approccio di un bambino/a alla scuola di danza di “paese”, credo che sia importantissimo e decisivo come approccio nella disciplina della danza e serva ad indirizzare alla disciplina e alla passione oltre che a far conoscere la danza come tecnica. Io poi sono stato particolarmente fortunato sia a Potenza che a Roma ad avere incontrato maestri che hanno saputo cogliere le mie qualità di danzatore e mi hanno spronato a fare sempre qualcosa di più: credo sia decisivo per ogni artista avere più punti di riferimento di maestri durante la propria carriera per ampliare la propria conoscenza e personalità.
E a te piace insegnare danza?
Ho insegnato in alcune occasioni ma ho capito che non mi sento portatissimo nell’insegnamento e vado fiero nel riconoscere questa cosa perché per insegnare devi riuscire a trasmettere qualcosa di più della semplice tecnica; devi essere un esempio ed essere in grado di far crescere il talento a cui insegni dedicandogli tutta la passione possibile.
Quando hai capito invece che la danza poteva diventare la tua vita?
Solo nell’adolescenza ho capito veramente che danzare poteva diventare la mia professione, poi a 18 anni quando ho fatto l’audizione per entrare alla Scala ne ho avuto la controprova finale. Quando mi sono trovato a Milano, questa volta da solo senza alcun appoggio familiare, ho avuto l’impatto decisivo: ho capito che ero diventato un uomo e avevo trovato la mia strada.
Per far capire meglio come vivi il tuo lavoro nella quotidianità, ci puoi raccontare come si svolge la giornata tipo di un primo ballerino del Teatro alla Scala?
La mia giornata inizia tutte le mattine con la lezione delle 10 di un’ora e un quarto e prosegue con le prove fino alle 17.30. Lavoriamo 6 giorni su 7 e il settimo giorno è di riposo ma molto spesso diventa un ulteriore giorno di lavoro perché vado da solo ad allenarmi in teatro se ci sono spettacoli imminenti.
Si, lavoro come tutti e arrivo a casa anche io ogni sera molto stanco e ho il corpo al collasso totale.
Per il resto della giornata cerco di vivere normalmente: mi piace stare con gli amici, in compagnia. Ho molti amici danzatori e molte amicizie durature tra danzatori sulla mia pelle però credo sia molto utile avere anche amici al di fuori del nostro mondo. Tra danzatori abbiamo un senso di responsabilità in più se lo spettacolo va male, quindi avere un amico che non fa il tuo stesso mestiere ti aiuta a metabolizzare altrimenti si rischia di pensare che il tuo sia l’unico mondo possibile.
Quale pensi che sia un lato importante del tuo lavoro su cui dovrebbe prestare attenzione un giovane danzatore?
La danza è una disciplina atletica ma dobbiamo essere anche degli attori senza parole. Chi viene a vedere uno spettacolo di danza deve capire e sentire solo attraverso i corpi e i nostri sguardi. Effettivamente un artista deve lavorare attraverso i gesti, il movimento, l’interpretazione e non tutti sono portati. È una cosa che si fa fatica ad imparare e credo che sia più che altro una predisposizione naturale e credo che in questo senso manchino nei percorsi professionali dei corsi di pantomina e di teatro che aiuterebbero a coltivare questo aspetto del nostro lavoro.
E tu come hai fatto ad ottenere questo risultato?
Per essere danzatori occorre avere un’ottima tecnica ma bisogna sapere anche stare in scena e questo nessuno te lo insegna, ti perfezioni tu giorno per giorno. Mi immedesimo e penso che sia facile ma dietro ogni passaggio c’è un sacco di lavoro e di questo non c’è alcuna consapevolezza nel mondo, il pubblico non sa che c’è uno studio dietro e chi non conosce il nostro mestiere non lo sa perché bisogna saper rendere tutto facile.
Ogni giorno siamo di fronte ad uno specchio e vediamo i difetti duplicati, non ci sentiamo per niente perfetti, ogni giorno riscontriamo qualcosa di nuovo che non va per questo ogni giorno è uno stimolo nuovo per migliorare. È necessario sempre crescere e migliorare, e ogni sfida, ogni racconto, ogni spettacolo è un buon modo per crescere e migliorare.
Sei molto seguito sui social, una passione o solo un modo per mantenere un contatto con il pubblico?
Non sono un fanatico di Instagram però mi sono avvicinato a questo social perché la fotografia è una delle mie passioni anche se mi ci dedico più che altro quando sono rilassato e quindi, purtroppo, in rare occasioni. Adesso principalmente uso questo social per il mio lavoro e pubblico soprattutto foto e video di spettacoli, molto meno per momenti che riguardano la mia vita privata.
Seguire l’esempio di Claudio Coviello è seguire l’esempio di un giovane che è riuscito a vivere “nella” e “della” sua passione, che è stato definito da Roberto Bolle “il talento più evidente che ho visto, una gemma pura da coltivare” e per il quale come tanti colleghi è stata un’ingiustizia, una considerazione di inferiorità del mondo dello spettacolo perché appeso ancora di più di altre categorie al filo dei decreti sulle riaperture che hanno fatto subire al suo lavoro una forte battuta d’arresto ...ma lo conferma e lo sottoscrive con orgoglio la danza è un lavoro come tutti gli altri e per questo ha bisogno di rispetto esattamente come tutti gli altri.
Foto di © Vito Lorusso
© Expression Dance Magazine - ottobre 2021