Quando si fa il nome di Giovanni Gava, chi ha avuto la possibilità di vederlo in azione almeno una volta dal vivo o su YouTube, non può che pensare subito alla sua tecnica incredibile che è seconda solo al suo stile molto personale, in grado di contraddistinguerlo e renderlo unico nel suo genere. Oltre alla break-dance, disciplina di cui è un brillante interprete, è anche un ottimo ballerino di danza contemporanea. Come danzatore di break-dance, ha iniziato la sua carriera nel 1997 come membro del Crew Floor Deep di Treviso, per passare poi ai Good Fellas di Firenze e alla Hip Hop Connection Kings, una delle squadre più innovative e originali della scena hip hop contemporanea, di cui è diventato coreografo e con cui ha ottenuto numerose vittorie alle competizioni di breaking a livello nazionale e internazionale. Nel 2012, sperimentando nuovi modi di comunicare attraverso la danza, ha fondato il gruppo Bellanda. Da segnalare che senza aver mai coreografato, è stato finalista al Premio Equilibrio Roma 2013 con la sua prima creazione autonoma sul contemporaneo.
Giovanni Gava, com’è stato il tuo primo “incontro” con la break-dance?
«Del tutto casuale. Avevo 18 anni e sono rimasto affascinato dalle evoluzioni di certi ragazzi che ho potuto ammirare nelle strade del centro di Udine e Trieste. Per me che venivo da un piccolo paesino di quattro anime, era qualcosa di completamente nuovo. Prima di allora, ero sempre stato attirato dalla musica rap che ascoltavo con regolarità e mi divertivo a girare con lo skateboard».
Si può dire dunque che inizialmente ti sei formato da autodidatta?
«Sì. In fondo, il bello della break-dance è che consente a chiunque di avvicinarsi a qualsiasi età. Il passo successivo è stato quello di guardare quanti più video musicali possibili su Mtv, cercando poi di copiare i movimenti. Poi però, spinto dalla voglia di riscatto e dal desiderio di non perdere tempo prezioso, ho pensato di avvicinarmi ai migliori del settore per imparare il più possibile. Così, ho viaggiato molto tra Germania e Svizzera con altri ragazzi per vedere come andavano fatte le cose. I ragazzi di oggi sono facilitati perché possono scaricarsi molti video e vedere praticamente di tutto senza neanche spostarsi. Il web è un grosso trampolino di lancio se ben utilizzato».
Cosa ti ha insegnato questa tua continua ricerca?
«Anzitutto che di imparare non si finisce mai e che non si è mai arrivati. Per cui il mio percorso è tuttora in divenire. La principale scoperta è stata una lettura diversa della break-dance, non solo come virtuosismo fine a se stesso, ma anche come lavoro che è possibile codificare. Per vent’anni, ho lavorato a terra facendo il cosiddetto footwork, che non è molto dissimile da quello che nel contemporaneo si definisce floorwork».
L’osservazione delle forti similitudini fra discipline, ti ha portato ad avvicinarti anche al contemporaneo?
«Sì. Un incontro che, in realtà, è stato inizialmente favorito dal desiderio di creare “ingressi corti” e alcuni gesti che avevo visto fare da coreografi che utilizzavano per i loro lavori ballerini di break-dance. Importante è stato anche l’incontro con Enzo Celli e con la sua compagnia Botega con cui ho esordito e collaborato, portando il mio linguaggio».
Come definiresti il tuo stile di danza?
«Non è mai facile descriversi… Ma, cerco sempre di trasmettere – con un passo o con una coreografia – non solo l’originalità del gesto fine a se stessa, ma anche un contenuto emotivo. Il virtuosismo tecnico, infatti, è qualcosa di freddo se non è accompagnato dall’espressività. Per questo, è così importante cercare passi diversi, ricercare di continuo, per riuscire in questa felice combinazione».
C’è stato il momento in cui hai capito che la danza poteva rappresentare il tuo futuro professionale?
«La danza è qualcosa che non si può scegliere, perché è un’arte… Non è solo una questione di essere bravi perché, dopo vent’anni di studio, un po’ tutti possono danzare bene con un minimo di predisposizione. Poi contano anche le circostanze, le opportunità che si incontrano lungo il proprio cammino. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ho 40 anni e che da quando ne avevo 20 ballo, probabilmente perché ho avuto la fortuna di incontrare coreografi meravigliosi a cui sono piaciuto. Non è qualcosa che dipende da me. A livello personale, posso solo cercare di mantenermi in forma e di allenarmi con costanza».
La danza è per sempre?
«No. È l’unica arte che non può esserlo. Si può dipingere, fare musica, recitare per tutta la vita, sperando persino di migliorare nel tempo. Fare danza, no. Certo, si può ballare a 50 anni ed essere anche strepitosi da un punto di vista espressivo, ma il gesto atletico non è più lo stesso dei 30. Semplicemente, perché il corpo invecchia…».
Come ballerino, quali lavori hai più amato?
«Ogni esperienza è sempre qualcosa di prezioso, e spesso è la conseguenza di un’altra. Così come tante sono le emozioni fra cui è impossibile scegliere… Per lungo tempo, il mio essere danzatore si è espresso attraverso le gare di hip hop, in cui ci si mette a nudo dopo mesi di prove nella propria soffitta. Competere vuol dire portare il proprio essere in un contesto di improvvisazione in cui non si sa inizialmente chi saranno gli avversari, quali le musiche e via dicendo. Diverso è il lavoro del ballerino con un coreografo. Al riguardo, ho un ricordo speciale di Roberto Cocconi che mi ha fatto vedere come interpretavo ogni singolo dettaglio, per insegnarmi poi come essere sempre presente e vigile su ciò che mi ruota attorno in scena».
C’è poi il capitolo insegnamento…
«Sì, ed è un capitolo molto delicato soprattutto con i bambini, con cui non si può mentire. Per questo insegno solo break-dance, disciplina in cui mi sento più a mio agio. Non sempre è facile insegnare e non sempre se ne ricava soddisfazione. Se vedo che di fronte ho degli allievi che affrontano una lezione come fosse uno sport qualsiasi da provare, lo faccio subito notare. Per me la danza non è un “supermercato dello sport”, né tanto meno un divertimento. Per passare il tempo libero facendo un po’ di attività in allegria, c’è la parrocchia. Mi piace insegnare solo quando mi trovo a lavorare con giovani ballerini che hanno una reale passione e che vogliono studiare con me. Un vero insegnante non può avere mille allievi, ma al massimo uno, due o tre da portare avanti nel tempo, per crescere insieme. Nella consapevolezza che un giorno, quando si è dato tutto al proprio allievo, è giusto che lui prosegua per la sua strada…».
Si è formato da autodidatta e viaggiando, alla ricerca di maestri. Vent’anni d’esperienza come ballerino, oggi si dedica anche all’insegnamento. Le sue lezioni al Campus 2017 sono state sorprendenti.
Hai perso l'occasione? Non perdere la prossima: Giovanni terrà nuove lezioni allo stage Expression, che si svolgerà a Ravenna dall'8 al 10 dicembre 2017.